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Emigranti, immigrati

Immigrants can expand labor supply and compete for jobs with native-born workers. But immigrants may also start new firms, expanding labor demand. This paper uses U.S. administrative data and other data sources to study the role of immigrants in entrepreneurship.

We ask how often immigrants start companies, how many jobs these firms create, and how firms founded by native-born individuals compare. A simple model provides a measurement framework for addressing the dual roles of immigrants as founders and workers.

The findings suggest that immigrants act more as “job creators” than “job takers” and play outsized roles in U.S. highgrowth entrepreneurship.

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To Kamala and Maya

The aim of this work is twofold. It seeks to provide a systematic interpretation and critical assessment of the main, contemporary lines of approach to a theory of accumulation and income distribution in the capitalist economy. At the same time, an attempt is made to develop an analytic reconstruction of some of the substantive problems and issues that arise in such a theory.

A basic reference point for the discussion is the system of ideas developed by the  English Classical economists and by Marx. This is a necessary point of departure, since it is in these ideas, and especially in  the work of Marx, that some of the main conceptual foundations for theoretical analysis of accumulation and distribution in the capitalist economy were laid. From this vantage point it is possible to gain both a critical understanding of contemporary approaches to that analysis and a conceptual framework for developing a more adequate theory.

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If you want to understand the brutality of American capitalism, you have to start on the plantation (Matthew Desmond)

In August of 1619, a ship appeared on this horizon, near Point Comfort, a coastal port in the British colony of Virginia. It carried more than 20 enslaved Africans, who were sold to the colonists. No aspect of the country that would be formed here has been untouched by the years of slavery that followed. On the 400th anniversary of this fateful moment, it is finally time to tell our story truthfully.

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La prima causa strutturale delle migrazioni internazionali
odierne, sempre più dirette da Sud verso Nord
(e da Est verso Ovest, specie in Europa), è  costituita
dalle disuguaglianze di sviluppo generate dal
colonialismo storico – che è stato il versante extra-europeo
del processo di formazione del modo di produzione
capitalistico alla scala globale.
Non se ne parla mai, ma la ricerca storica meno malata
di eurocentrismo ha ormai assodato che fino alla
fine del 1400 (ed oltre) i livelli di sviluppo materiale
raggiunti nei diversi continenti sono stati sostanzialmente
comparabili. In ogni caso le disparità esistenti
a quel tempo non avevano nulla a che vedere con le
odierne disuguaglianze di sviluppo, raffigurate alcuni
anni fa dall’Onu con una coppa rovesciata. E questo
senza eccezioni, se è vero, come attesta Joseph Ki-
Zerbo, che “fino al XVI secolo l’Africa [nera] poteva
validamente paragonarsi agli altri continenti. Poi è intervenuta
una frattura che si è andata progressivamente
allargando”, per effetto della tratta degli schiavi e
delle aggressioni e spartizioni coloniali.

La stessa cosa si può dire per il mondo arabo che aveva conosciuto
già il suo apogeo nei secoli precedenti (“il momento
islamico della storia del mondo”), quando era riuscito
a raccogliere e sintetizzare le conoscenze acquisite
dagli antichi romani, dai greci, dagli egiziani, dai bizantini,
dai cinesi, dagli indiani, spingendosi molto in
profondità dentro l’Asia.

Se all’inizio del 1500 un’area
continentale era in uno stadio più avanzato delle
altre, questa era l’Asia dell’impero moghul in India e
della dinastia Ming in Cina, e lo sarebbe rimasta fino
al primo ventennio del 1800.
La frattura storica, la “grande divergenza” tra l’Europa
e i continenti “di colore” ha iniziato a determinarsi
a partire proprio dall’assalto europeo alle Americhe
(data-simbolo il 1492, primo viaggio dell’avido mercante
di schiavi genovese Cristoforo Colombo nelle
Indie occidentali), si è approfondita nei secoli
seguenti attraverso il saccheggio delle
Americhe, la tratta degli schiavi africani, la
colonizzazione del Golfo Persico, l’assalto
all’Asia, la spartizione e l’occupazione
dell’Africa, e ha messo capo ad una divisione
internazionale del lavoro che ha visto le
metropoli europee sfruttare e opprimere per
secoli le colonie e le semi-colonie. Una divisione
internazionale del lavoro messa in
discussione esclusivamente da un possente
movimento anti-coloniale, ma che ha tuttora
un grande peso nella determinazione delle
migrazioni mondiali.

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Rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
vede da gran concorso attorneggiati
entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani, che da sè disgiunti e sparsi
avea dianzi del mar l’aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio d’abbracciarli e di mostrarsi
assaliro in un tempo Acate e lui.

Ma, dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stero, e cheti,
per ritrar che seguisse e che seguito
fosse già de le navi e de’ compagni,
di cui questi eran primi e li più scelti
di ciascun legno. E già pieno era il tempio
di tumulto e di voti ch’altamente
di sentian vènia risonare e pace.

Poichè furo entromessi, e ch’udïenza
fur lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,
Noi miseri Troiani, a tutti i venti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,

caduti dopo l’onde in preda al foco
che da’ tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghianti a proveder che nel tuo regno
non si commetta un sì nefando eccesso.

Fa cosa di te degna, abbi di noi
Pietà, che pii, che giusti, ch’innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l’altrui:
Tanto i vinti d’ardire, e gl’infelici
d’orgoglio e di superbia, oimè! non hanno.

Una parte d’Europa è, che da’ Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima Enotria nomossi, or, come è fama,
preso d’Italo il nome, Italia è detta.

Qui ’l nostro corso era diritto, quando
Orïon tempestoso i venti e ’l mare
sì repente commosse, e mar sì fero,
Vènti sì pertinaci, e nembi e turbi
così rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n’ha tutti: altri a le secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
E noi pochi, di tanti, ha qui condotti.

Ma qual sì cruda gente, qual sì fera
e barbara città quest’uso approva,

Che ne sia proibita anco l’arena?
Che guerra ne si muova, e ne si vieti
di star ne l’orlo de la terra a pena?
Ah! se de l’armi e de le genti umane
nulla vi cale, a Dio mirate almeno,
che dal ciel vede, e riconosce i meriti.

 

Virgilio, Eneide, Libro I

PREFACE
Fog and dirt, violence and magic have surrounded the tracing and institution of borders since late antiquity. Sources from around the world tell us wonderful and frightening stories about the tracing of demarcation lines between the sacred and the profane, good and evil, private and public, inside and outside. From the liminal experiences of ritual societies to the delimitation of land as private property, from the fratricide of Remus by Romulus at the mythological foundation of Rome to the expansion of the imperial limes, these stories speak of the productive power of the border—of the strategic role it plays in the fabrication of the world.

They also convey, in a glimpse, an idea of the deep heterogeneity of the semantic field of the border, of its complex symbolic and material implications. The modern cartographical representation and institutional arrangement of the border as a line—first in Europe and then globalized through the whirlwind of colonialism, imperialism, and anticolonial struggles—has somehow obscured this complexity and led us to consider the border as literally marginal. Today, we are witnessing a deep change in this regard.

As many scholars have noted, the border has inscribed itself at the center of contemporary experience. We are confronted not only with a multiplication of different types of borders but also with the reemergence of the deep heterogeneity of the semantic field of the border. Symbolic, linguistic, cultural, and urban boundaries are no longer articulated in fixed ways by the geopolitical border. Rather, they overlap, connect, and disconnect in often unpredictable ways, contributing to shaping new forms of domination and exploitation.

Violence undeniably shapes lives and relations that are played out on and across borders worldwide. Think of the often unreported deaths of migrants challenging borders in the deserts between Mexico and the United States or in the choppy waters of the Mediterranean Sea. New and old forms of war continue to target vast borderlands. Think of Waziristan, Kashmir, Palestine. This book was born out of indignation and struggles, particularly migrants’ struggles, against such violence and war at the border. As our research and writing proceeded, we also learned (once again, particularly from migrants) to valorize the capacities, skills, and experiences of border crossing, of organizing life across borders. Literal and metaphorical practices of translation have come to be more associated in our minds with the proliferation of borders and border struggles in the contemporary world.
Although this proliferation of borders, as we have stressed, is deeply implicated in the operation of old and new devices of dispossession and exploitation, we contend that it is precisely from this point of view that struggles revolving around borders and practices of translation crisscrossing them can play a key role in fostering the debate on the politics of the common.
This book can be partially read as a contribution to this debate, in which we see some of the most promising conditions for the reinvention of a project of liberation in the global present.
In the past few years, we have become increasingly uncomfortable with the fixation in many critical border studies as well as activist circles on the image of the wall. This does not mean we do not recognize the importance of the worldwide spread of walls just a few decades after the celebration of the fall of the Berlin wall. But independent of the fact that many walls are far less rigid than they pretend to be, taking the wall as the paradigmatic icon of contemporary borders leads to a unilateral focus on the border’s capacity to exclude. This can paradoxically reinforce the spectacle of the border, which
is to say the ritualized display of violence and expulsion that characterizes many border interventions.
The image of the wall can also entrench the idea of a clear-cut division between the inside and the outside as well as the desire for a perfect integration of the inside. As we show in this book, taking the border not only as a research ‘‘object’’ but also as an ‘‘epistemic’’ angle (this is basically what we mean by ‘‘border as method’’) provides productive insights on the tensions and conflicts that blur the line between inclusion and exclusion, as well as on the profoundly changing code of social inclusion in the present. At the same time, when we speak of the importance of border crossing, we are aware that this moment in the operation of borders is important not just from the point of view of subjects in transit. The same is true for states, global political actors, agencies of governance, and capital.
Sorting and filtering flows, commodities, labor, and information that happens at borders are crucial for the operation of these actors. Again, taking the border as an epistemic angle opens up new and particularly productive perspectives on the transformations currently reshaping power and capital —for instance, shedding light on the intermingling of sovereignty and governmentality and on the logistical operations underlying global circuits of accumulation.
Our work on borders is to be read in this sense as a contribution to the critical investigation of actually existing global processes. Gone are the days in which a book like
The Borderless World, published in 1990 by Japanese management guru Kenichi Omae, could set the agenda for the discussion on globalization and borders. The idea presented there of a zero-sum game between globalization and borders (insofar as globalization progresses, the relevance of borders will be diminished) has been very influential but has been rapidly displaced by evidence of the increasing presence of borders in our present. Although our work charts this process of multiplication of borders, our argument is not that the nation-state has been untouched by globalization. We concur with many thinkers who have argued that the nation-state has been reorganized and reformatted in the contemporary world. This leads us to focus not only on traditional international borders but also on other lines of social, cultural, political, and economic demarcation. For instance, we investigate the boundaries circumscribing the ‘‘special economic zones’’ that proliferate within formally united political spaces in many parts of the world.
To repeat, one of our central theses is that borders, far from serving merely to block or obstruct global passages of people, money, or objects, have become central devices for their articulation. Borders play a key role in the production of the heterogeneous time and space of contemporary global and postcolonial capitalism. This focus on the deep heterogeneity of the global is one of the distinguishing points we make, in a constant dialogue with many anthropological and ethnographic works as well as with social
and political thinkers. Subjects in motion and their experiences of the border provide a kind of thread that runs through the nine chapters of the volume. We analyze the evolving shape of border and migration regimes in different parts of the world, looking at the way these regimes concur in the production of labor power as a commodity. At the same time we focus on the long-term problem of relations between the expanding frontiers of capital and territorial demarcations within the history of modern capitalism,
conceived of as a world system since its inception.
We are convinced that in the current global transition, under the pressure of capital’s financialization, there is a need to test some of the most cherished notions and theoretical paradigms produced by political economy and social sciences to come to grips with that problem—from the international division of labor to center and periphery. Again, taking the point of view of the border, we propose a new concept—the multiplication of labor—and we attempt to map the very geographical disruption that lies at the core of capitalist globalization.
Border as Method can therefore also be read as an attempt to contribute to the ongoing discussion on the evolving shape of the world order and disorder.
Our emphasis on heterogeneity is also important for the analysis of what we call with Karl Marx the composition of contemporary living labor, which is more and more crisscrossed, divided, and multiplied by practices of mobility and the operation of borders. To gain an analytical purchase on these processes we interlace multiple gazes and voices, crossing and challenging the North–South divide. While we stress the relevance of migration experiences and control regimes from the point of view of the transformations of labor in the Euro-Atlantic world, intervening in the discussion on care and affective labor as well as precarity, we also focus, to make a couple of examples, on the hukou system of household registration in contemporary China and the complex systems of bordering that internally divide the Indian labor market. We are aware of many differences that must be taken into account in doing this. We do not propose a comparative analysis of these and other instances. We are interested in another kind of knowledge production, one that starts from concepts and works on the (often unexpected) resonances and dissonances produced by the encounters and clashes between these concepts and a materiality that can be very distant from the one within
which they were originally formulated.
This is part and parcel of what we call border as method. In the case of the composition of living labor, it points to the strategic relevance of heterogeneity (of, for example, figures, skills, legal and social statuses) across diverse geographical scales. Nowadays, multiplicity is the necessary point of departure for any investigation of the composition of labor, and Border as Method attempts to provide some tools for identifying the points of more intense conflict and friction where such an investigation can focus. Although multiplicity and heterogeneity are cut and divided by devices of control and hierarchization, it is no less true today that unity is strength (to use words that marked an epoch in the history of class struggle). But the conditions of this unity have to be fully reimagined against the background of a multiplicity and heterogeneity that must be turned from an element of weakness into an element of strength.
It will not be surprising that our work on borders leads us to engage in a discussion with some of the most influential elaborations on the topic of political subjectivity circulating in current critical debates. Borders in modernity have played a constitutive role in the modes of production and organization of political subjectivity. Citizenship is probably the best example of this, and it is only necessary to reflect on the important connection between citizenship and labor in the twentieth century to grasp the ways the movements of the dyadic figure of the citizen-worker have been inscribed within the national confines of the state. Working through citizenship studies, labor studies, as well as more philosophical debates on political subjectivity, we map the tensions and ruptures that crisscross the contemporary figures of both the citizen and the worker.
The borders circumscribing these figures have become blurred and unstable, and, to reference a slogan of Latinos in the United States (‘‘we did not cross the border, the border crossed us’’), they are themselves increasingly crossed and cut, more than circumscribed, by borders. Around these borders, although often far away from the literal border, some of the most crucial struggles of the present are fought. Liberating political imagination from the burden of the citizen-worker and the state is particularly urgent to open up spaces within which the organization of new forms of political subjectivity becomes possible. Here, again, our work on borders encounters current debates on translation and the common.

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Copertina anteriore

Prefazione

In Italia, in Europa, in Occidente l’ascesa del razzismo è da anni evidente.
La rappresentazione dominante vede salire questo processo dal basso verso l’alto, e catalizza gli sguardi sulla diffusione a livello popolare di sentimenti e comportamenti di ostilità e disprezzo verso le popolazioni immigrate. Alle istituzioni si imputa, al più, di non fare abbastanza per contrastare simili sentimenti, o di alimentarli incautamente con singole decisioni o atti ispirati a logiche di “intolleranza”. La tesi centrale di questo libro è, invece, che il primo propellente del revival del razzismo in corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono proprio gli stati, i governi, i parlamenti: con le loro legislazioni speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro prassi amministrative arbitrarie, la selezione razziale tra nazionalità “buone” e nazionalità pericolose, le ossessive operazioni di polizia e i campi di internamento.
È una tesi controcorrente. Ma una scienza sociale che non voglia accucciarsi a fare la “guardia del corpo dell’imperatore” o accontentarsi di produrre aria fritta a mezzo di aria fritta, deve attenersi rigorosamente alla realtà. Anche e soprattutto quando un’imponente messe di mistificazioni riesce a darne, con successo, un’immagine capovolta.

Oggetto della nostra indagine sono gli Stati Uniti, l’Europa occidentale, l’Italia per la semplice ragione che gli autori di questo libro avvertono come prioritario il compito di fare luce su ciò che sta avvenendo nelle “proprie” società e lanciare un allarme prima che su di noi scenda la notte. Tuttavia sono, siamo consapevoli che l’Occidente non ha la privativa delle discriminazioni e della violenza di stato nei confronti dei lavoratori immigrati. Il trattamento riservato in Arabia saudita e negli emirati del Golfo agli edili asiatici, nuovi coolies imprigionati nel kafala, in Cina ai connazionali mingong scacciati a decine di milioni dalle campagne verso le metropoli e le industrie delle free zones, in Russia ai manovali caucasici, o in Israele ai braccianti agricoli thailandesi e nepalesi, per non parlare dei palestinesi, non è in sostanza differente. E il muro di 4.000 km che l’India sta edificando al confine con il Bangladesh non ha nulla da invidiare alle fortificazioni erette sul confine tra gli Stati Uniti e il Mexico e alle muraglie elettroniche di cui si sta circondando a sud e ad est la fortezza Europa.

La diffusione di misure sistematicamente inferiorizzanti e vessatorie nei confronti degli immigrati è in effetti (quasi) universale. Il che ci rimanda al contenuto materiale, sociale, di classe, del razzismo istituzionale, al suo essere un’arma che le imprese, il mercato, il capitale globale stanno adoperando a livello globale contro il lavoro salariato mondializzato per spaccarlo in profondità e appropriarsi liberamente della sua linfa vitale. Anche questa affermazione suonerà a molti ostica, ma dobbiamo presupporre esistano lettori intenzionati ad andare oltre il senso comune. Altrimenti, non avremmo scritto neppure un rigo.

Questa ascesa del razzismo istituzionale non è certo una novità assoluta. In Europa e negli Stati Uniti il razzismo è di casa da lungo tempo, e come una malattia cronica si riacutizza periodicamente nei frangenti storici più drammatici. È quanto sta tornando ad avvenire in questo tormentato inizio di secolo segnato da una crisi globale, economica e politica, di portata colossale, che si intreccia con il tramonto dell’ordine mondiale partorito dalla seconda guerra mondiale.

La mondializzazione neo-liberista e il suo esito catastrofico in quella che lo stesso Greenspan ha definito la più grande crisi della storia del capitalismo sono il primo contesto a cui riferirsi per cercare di dare conto del perché si va facendo così acuta l’infezione razzista e così frenetica la diffusione istituzionale dei suoi virus. Ebbene, per quanto possa sembrare incredibile, per i dettami del turbo e tardo-capitalismo globale ‘afflitto’ da un eccesso di macchine rispetto alla quantità di lavoro vivo impiegata, il lavoro vivo, in particolare in Occidente, costa troppo, ha troppi diritti, troppe rigidità, troppe garanzie, troppo potere di interdizione, un eccessivo riconoscimento sociale. E va ricondotto alla “ragione”: alla ragione del profitto. Con cure chimiche speciali sul tipo di quelle inferte a Baghdad e Gaza per le genti “di colore”, o del tipo Chrysler e General Motors (30-40% di taglio dei salari) per i lavoratori dei paesi occidentali. Per la riuscita di una terapia d’urto del genere nulla è altrettanto utile quanto il ritorno in scena delle dottrine, degli stereotipi e delle prassi razziste già ampiamente sperimentate dal colonialismo storico, quanto la concorrenza scatenata e, più ancora, lo scontro aperto tra i lavoratori delle diverse “razze” e nazionalità.

Il sogno dei poteri costituiti euro-statunitensi non è quello di tornare indietro, supposto per assurdo che fosse possibile, a nazioni “etnicamente” omogenee con l’espulsione di massa delle genti immigrate. Per le imprese e gli stati occidentali tale prospettiva sarebbe un incubo, visto il crescente contributo delle immigrate e degli immigrati in quanto lavoratori alla produzione agricola e manifatturiera e ai servizi alle persone sostituitivi del welfare, e visto l’apporto che le genti immigrate danno alla crescita demografica delle nazioni occidentali in quanto riproduttrici della vita. Il sogno è quello di poter disporre in modo illimitato, mutevole al mutare delle congiunture, di una enorme massa di gastarbeiter, guest workers, lavoratori temporaneamente ospiti, una forza di lavoro just in time vincolata, senza nessuna libertà di circolazione, senza famiglia, senza nessun diritto permanente, senza sindacato. E di poter sospingere il più possibile anche gli immigrati di lungo corso in una simile condizione di mera, nuda forza-lavoro. Una incarnazione di quella “cineseria operaia” di cui parlò una volta Nietzsche senza, è probabile, avere in mente alcun elemento “etnico” preciso, bensì sospirando di una classe operaia finalmente educata, in quanto tale e indipendentemente dalla nazionalità dei suoi singoli membri, a “sentire” al modo dei soldati.

Anche gli architetti dell’attuale rilancio del razzismo istituzionale non sono degli esclusivisti. Se negli Stati Uniti picchiano di preferenza sui chicanos e sui latinos e in Europa sugli immigrati dai paesi arabi e islamici, i nuclei più numerosi e organizzati dell’immigrazione, attraverso l’inferiorizzazione e la demonizzazione delle nazionalità più indesiderate (il mezzo) ciò che essi hanno di mira è l’intero mondo dell’immigrazione, nazionalità “buone” incluse, anzi l’intero mondo del lavoro, la svalorizzazione di tutta la forza-lavoro senza badare alle differenze nazionali (il fine). E hanno di mira (un secondo fine) la criminalizzazione della povertà, la colpevolizzazione di quella parte del mondo del lavoro che non riesce e non riuscirà in futuro, a causa della crisi, a sfuggire alla povertà: un ruolo simbolico essenziale è assegnato, a questo riguardo, ai pauperizzati rom. Così la crisi del meccanismo dell’accumulazione viene scaricata sul lavoro o su chi, per ragioni storiche o contingenti, ne è rimasto privo: se le cose vanno male, la colpa è degli immigrati e degli emarginati, ed è con loro che bisogna prendersela.

Non si tratta, però, solo di questo. La prima, gravissima recessione di inizio secolo si intreccia, si sovrappone con la fine dell’ordine mondiale imperniato sul primato statunitense e, in senso lato, occidentale, messo in discussione ormai in ogni campo, dalla tecnologia alla moneta, dalla produzione culturale allo stesso ambito militare. La Cina, l’India, l’Oriente ascendono e, con essi, anche alcuni altri paesi del Sud del mondo. La lunga marcia dei popoli e dei lavoratori delle ex-colonie e – per altro verso – dei “rispettivi” capitalismi impaurisce (comprensibilmente) le élites occidentali e le spinge sempre più a considerare le genti immigrate negli Stati Uniti e in Europa occidentale come le quinte colonne di questa marcia, da tenere perciò sotto stretta osservazione e severo controllo. Un compito nel quale stati e governi stanno tentando di coinvolgere e mobilitare sempre più, oltre che gli apparati istituzionali, anche le rispettive società.

È proprio alla testa, al cuore e alla pancia delle popolazioni e dei lavoratori statunitensi ed europei d.o.c. che questo revival del razzismo di stato punta, agitando dinanzi ai loro occhi la presunta incompatibilità tra culture e civiltà diverse, la presunta tendenza naturale a delinquere degli immigrati e le bandiere stracciate, e però insidiose, della concorrenza sleale degli immigrati e della “preferenza nazionale” da ristabilire. Da svariati anni, ormai, questa diffusione istituzionale del razzismo a livello popolare non conosce soste, né limiti. E le conseguenze sono sempre più gravi. Prendiamo l’Italia, il paese che nei mesi scorsi ha sdoganato anche, “solo” a livello verbale, d’accordo, ma è da lì che si comincia, i rastrellamenti casa per casa degli immigrati. Una recentissima indagine sull’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati mostra che la metà di essi avverte un senso di ripulsa, più o meno ideologizzata, più o meno accentuata, verso le popolazioni immigrate, mentre solo un 10% di loro si dichiara serenamente “aperto” nei loro confronti. Risultati analoghi hanno dato analoghe rilevazioni in altri paesi europei, ad esempio in Spagna.

La tendenza di fondo di cui stiamo dicendo ha conosciuto un salto di qualità negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001, in Europa negli anni immediatamente successivi. Nella sua eclettica e ondivaga riflessione sulla violenza invisibile, Slavoj  Zizek ha tuttavia centrato il punto quando ha affermato che in Europa

«il grande evento del 2006 è stata l’adozione generalizzata delle politiche contro l’immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell’estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito di un’orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: ‘È il nostro paese, o lo ami, o te ne vai’».

Più che di un salto di qualità compiuto in un singolo anno o momento, si è trattato, si tratta di un’escalation. Più che di politiche contro l’immigrazione, è preferibile parlare di politiche contro gli immigrati, poiché la loro finalità fondamentale non è mai il blocco dell’immigrazione, anche quando intimano ai malcapitati di tornarsene “a casa loro”. Ma senza dubbio il (provvisorio) punto di approdo di questo processo è il rilancio della retorica identitaria nazionalista, occidentalista, bianca, che pretende dagli immigrati, specie se extra-europei, qualcosa in più dell’integrazione o della stessa assimilazione: pretende il totale espianto dalle proprie “radici” nazionali e culturali, la totale rimozione dell’esperienza di discriminazione e di umiliazione vissuta nell’emigrazione, e la completa identificazione, la congiunzione amorosa, con il paese che ha avuto la magnanimità di accoglierli come ospiti e che, a date e rigorosissime condizioni, può addirittura ammetterli al supremo (e vuoto, Sayad insegna) onore della cittadinanza. Dunque, nonostante il fenomeno Obama, di cui parleremo, con i richiami istituzionali ai core values statunitensi, alla britishness, all’identité française, alle inflazionate “carte dei valori” italiana, svizzera, etc., e alle posticce “identità” territoriali locali, siamo ad un solo passo dal formale ripudio del tiepidissimo multiculturalismo fin qui esperito, sotto la pressione delle lotte dei coloured, al di là e al di qua dell’Atlantico. Ad un solo passo dall’accettazione della prospettiva dello “scontro di civiltà” come pensiero e prassi di stato dell’intero Occidente.

Le politiche migratorie repressive dell’ultimo decennio hanno prodotto anche un altro importante effetto: la messa in opera di un sistema di controlli militari, polizieschi, amministrativi, sociali che da un lato hanno adeguato la macchina repressiva a una sorta di emergenza permanente per difendersi dal rischio-invasione e piegato la produzione del diritto ai tempi frenetici dell’accumulazione a breve, e dall’altro hanno socializzato il potere di discriminare le genti immigrate ponendolo (anche) nelle mani di cittadini autoctoni comuni. Non ne sono stati colpiti solo gli immigrati o i più “pericolosi”, invisi o deboli tra essi, inghiottiti da nuove grandi fosse comuni nel Sahara, nel Mediterraneo, nelle aree desertiche al confine tra Messico e Stati Uniti. Per questa via sono stati introdotti nella vita civile in modo abituale mezzi e metodi militari che potranno essere usati domani, e già cominciano ad esserlo oggi, contro gli stessi autoctoni. Tanto per dirne una: con la diffusione su tutto il territorio europeo di campi destinati ai “clandestini” o ai richiedenti asilo sempre più spesso respinti ai margini della vita sociale, si realizza una banalizzazione della violenza istituzionale e privata, che oltre a legittimare forme di vero e proprio apartheid per gli immigrati, promuove e normalizza un “modello di società” in cui le misure penali speciali, i metodi polizieschi (anche brutali), la delazione verso i “sospetti”, la creazione di luoghi sottratti ad ogni forma di diritto, divengono accettabili e perfino indispensabili.

L’ascesa del razzismo istituzionale porta con sé, quindi, insieme a una nuova esasperazione dei nazionalismi sciovinisti, un’ulteriore stretta autoritaria dello stato sulla società. Svuotamento della democrazia? democrazia “delle radici, dei valori, dell’identità cristiana, occidentale, capitalistica”? post-democrazia? fascismo democratico? Più importante delle formule è, a mio avviso, afferrare la sostanza e la dinamica delle trasformazioni in atto, guardandosi bene dal ridurle a una meccanica ripetizione del passato. E comprendere che, da qualsiasi lato li si osservi, la guerra agli emigranti messicani, africani, arabo-islamici, il montare del razzismo di stato contro i lavoratori e le genti immigrate in Occidente sono parte di quella “guerra permanente contro i non possidenti e gli spossessati” (A. Traoré) che sta coinvolgendo aree sempre più ampie del lavoro manuale e intellettuale degli stessi paesi dominanti.

La prima ambizione del libro che avete davanti è quella di presentare una analisi e una documentazione la più ricca ed aggiornata possibile di questo processo, o intreccio di processi. Nessuno dei temi scottanti del momento viene eluso, ma ad alcuni di essi che sono al centro della propaganda e dell’azione degli stati specie in Europa e in Italia – l’islamofobia, le politiche contro gli immigrati “clandestini” e i richiedenti asilo, la rinnovata persecuzione contro i rom – è riservato uno spazio maggiore. Si tratta di motivi a prima vista particolari, circoscritti. E che invece, come dei bulldozer, aprono ogni giorno la strada ad un attacco generale contro tutte le popolazioni immigrate, raffigurate sempre più di frequente come il nemico interno, con l’esito di amareggiare e precarizzare radicalmente la loro esistenza, anche se e quando sono totalmente in regola con le norme di diritto speciale a loro riservate.

Nessuno dei temi scottanti del momento viene eluso… ma una questione di grande importanza non trova qui quella ampia e onnilaterale trattazione che meriterebbe: è la politica di stato su e verso le donne immigrate, quel peculiare mix di razzismo, sessismo e paternalismo, in cui si fondono e si confondono vecchi e nuovi stereotipi tutti inferiorizzanti le donne “di colore” (e attraverso esse, i loro popoli di origine). Ci occupiamo della tematica in relazione alle giovani donne immigrate quotidianamente oggetto di violenza sulle strade e all’ipocrita attenzione di stato verso le donne “islamiche”; aspetti non certo secondari e per contro assai poco dibattuti, ma avvertiamo comunque la limitatezza del nostro sguardo e vedremo di superarla alla prima occasione.

Questo libro si pone in linea di continuità con un precedente volume collettaneo che ho curato insieme a Fabio Perocco, Gli immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo, lotte, e al pari di quello presenta, come è scontato in un lavoro con molteplici contributi, importanti assonanze e importanti dissonanze. Delle prime ho riferito l’essenziale che non è da poco, dato il tema e dati i tempi. Le dissonanze riguardano soprattutto le prospettive della democrazia occidentale, la possibilità (o meno) di introdurvi una radicale riforma della cittadinanza che rispecchi le trasformazioni verificatesi nella composizione delle società occidentali: una cittadinanza basata sulla residenza, che vada oltre la singola nazionalità, plurale, attiva, partecipativa. Molti degli autori che scrivono in questo libro pensano che ciò sia per davvero possibile. Di loro condivido la determinazione nella difesa accanita dei diritti democratici acquisiti e la denuncia degli innumerevoli passi indietro che le democrazie stanno facendo in relazione agli immigrati per primo, ai lavoratori e ai cittadini autoctoni, in secondo; così come condivido in pieno l’impegno a delineare una nuova idea di cittadinanza svincolata dalla prigione del nazionalismo. Ma non posso condividerne la fiducia nella rigenerazione di una democrazia borghese dai tratti sempre più strutturalmente oligarchici, classisti e “razziali”, che non a caso conosce da decenni una riduzione della partecipazione politica degli stessi autoctoni anche ai suoi solenni riti elettorali. Il mio dissenso è ancor più profondo nei confronti di quei testi – penso, ad esempio, alle prese di posizione della Coordination française pour le droit d’asile – che, in qualche modo, si appellano proprio agli attuali governi, alle attuali autorità ed istituzioni europee e internazionali perché invertano la loro rotta di marcia, che a me appare invece determinata e fissata dagli interessi che esse sono chiamate a presidiare, e che intendono ad ogni costo presidiare.

Tutto già scritto, allora? Sì, se ci riferiamo alla superclass euro-statunitense e alle sue istituzioni. Al tempo stesso, nulla è già deciso. L’ascesa del razzismo non è irresistibile. Il numero, il radicamento, la centralità degli immigrati nella produzione di beni e di servizi sono crescenti, e crescente è la loro forza oggettiva, un ostacolo non facile da spianare per le politiche razziste. È in atto una trasformazione epocale delle società occidentali in senso multirazziale, multinazionale, multiculturale, che si intreccia con un inaudito processo di polarizzazione sociale tra capitale e lavoro; questo, a sua volta, si interseca con la crisi dell’ordine mondiale a guida statunitense.

La storia, la storia dei grandi conflitti sociali, delle grandi alternative sociali e politiche che hanno segnato il ventesimo secolo, più che esser finita, sembra sul punto di ricominciare su nuove basi e da nuovi “luoghi”. Specie perché, a differenza di ieri (penso ora all’Europa), vivendo fianco a fianco, le genti di diversa nazionalità che si guadagnano la vita con il sudore della fronte e l’esaurimento dei propri nervi stanno apprendendo, tra mille traversie, anche ciò che le avvicina e le accomuna, stanno sperimentando, in mezzo a molteplici incomprensioni, pregiudizi, attriti, conflitti, odii, anche il valore ideale e materiale della solidarietà tra lavoratori: al di là dei diversi colori della pelle, delle diverse culture, delle religioni o non religioni, delle differenze vere o presunte tra le civiltà. Ed è proprio questo lungo, faticoso apprendistato fatto in comune da autoctoni e da immigrati che rende inquieti i sonni dei potenti d’Europa e d’America.

La Nuit juste avant les forêts

La gestione dei recenti flussi di rifugiati e migranti ha esacerbato la segmentazione del mercato del lavoro dell’UE, rafforzando il processo di degradazione. La politica migratoria e del lavoro dell’UE si basa sulla segmentazione del mercato del lavoro, che genera forti differenze salariali e processi di stigmatizzazione e razzismo. Tuttavia, i migranti e i rifugiati, sostenuti anche da una parte dell’associazionismo di base e da alcuni sindacati, si muovono per contrastare questa tendenza.

Queste note analizzano alcuni aspetti della relazione tra il mercato del lavoro, i migranti e i rifugiati nell’Unione Europea, tenendo conto dei recenti flussi migratori provenienti non solo dall’Asia e dall’Africa, ma anche dall’Ucraina, dove continua un conflitto a bassa intensità.

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