In Italia, in Europa, in Occidente l’ascesa del razzismo è da anni evidente.
La rappresentazione dominante vede salire questo processo dal basso verso l’alto, e catalizza gli sguardi sulla diffusione a livello popolare di sentimenti e comportamenti di ostilità e disprezzo verso le popolazioni immigrate. Alle istituzioni si imputa, al più, di non fare abbastanza per contrastare simili sentimenti, o di alimentarli incautamente con singole decisioni o atti ispirati a logiche di “intolleranza”. La tesi centrale di questo libro è, invece, che il primo propellente del revival del razzismo in corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono proprio gli stati, i governi, i parlamenti: con le loro legislazioni speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro prassi amministrative arbitrarie, la selezione razziale tra nazionalità “buone” e nazionalità pericolose, le ossessive operazioni di polizia e i campi di internamento.
È una tesi controcorrente. Ma una scienza sociale che non voglia accucciarsi a fare la “guardia del corpo dell’imperatore” o accontentarsi di produrre aria fritta a mezzo di aria fritta, deve attenersi rigorosamente alla realtà. Anche e soprattutto quando un’imponente messe di mistificazioni riesce a darne, con successo, un’immagine capovolta.
Oggetto della nostra indagine sono gli Stati Uniti, l’Europa occidentale, l’Italia per la semplice ragione che gli autori di questo libro avvertono come prioritario il compito di fare luce su ciò che sta avvenendo nelle “proprie” società e lanciare un allarme prima che su di noi scenda la notte. Tuttavia sono, siamo consapevoli che l’Occidente non ha la privativa delle discriminazioni e della violenza di stato nei confronti dei lavoratori immigrati. Il trattamento riservato in Arabia saudita e negli emirati del Golfo agli edili asiatici, nuovi coolies imprigionati nel kafala, in Cina ai connazionali mingong scacciati a decine di milioni dalle campagne verso le metropoli e le industrie delle free zones, in Russia ai manovali caucasici, o in Israele ai braccianti agricoli thailandesi e nepalesi, per non parlare dei palestinesi, non è in sostanza differente. E il muro di 4.000 km che l’India sta edificando al confine con il Bangladesh non ha nulla da invidiare alle fortificazioni erette sul confine tra gli Stati Uniti e il Mexico e alle muraglie elettroniche di cui si sta circondando a sud e ad est la fortezza Europa.
La diffusione di misure sistematicamente inferiorizzanti e vessatorie nei confronti degli immigrati è in effetti (quasi) universale. Il che ci rimanda al contenuto materiale, sociale, di classe, del razzismo istituzionale, al suo essere un’arma che le imprese, il mercato, il capitale globale stanno adoperando a livello globale contro il lavoro salariato mondializzato per spaccarlo in profondità e appropriarsi liberamente della sua linfa vitale. Anche questa affermazione suonerà a molti ostica, ma dobbiamo presupporre esistano lettori intenzionati ad andare oltre il senso comune. Altrimenti, non avremmo scritto neppure un rigo.
Questa ascesa del razzismo istituzionale non è certo una novità assoluta. In Europa e negli Stati Uniti il razzismo è di casa da lungo tempo, e come una malattia cronica si riacutizza periodicamente nei frangenti storici più drammatici. È quanto sta tornando ad avvenire in questo tormentato inizio di secolo segnato da una crisi globale, economica e politica, di portata colossale, che si intreccia con il tramonto dell’ordine mondiale partorito dalla seconda guerra mondiale.
La mondializzazione neo-liberista e il suo esito catastrofico in quella che lo stesso Greenspan ha definito la più grande crisi della storia del capitalismo sono il primo contesto a cui riferirsi per cercare di dare conto del perché si va facendo così acuta l’infezione razzista e così frenetica la diffusione istituzionale dei suoi virus. Ebbene, per quanto possa sembrare incredibile, per i dettami del turbo e tardo-capitalismo globale ‘afflitto’ da un eccesso di macchine rispetto alla quantità di lavoro vivo impiegata, il lavoro vivo, in particolare in Occidente, costa troppo, ha troppi diritti, troppe rigidità, troppe garanzie, troppo potere di interdizione, un eccessivo riconoscimento sociale. E va ricondotto alla “ragione”: alla ragione del profitto. Con cure chimiche speciali sul tipo di quelle inferte a Baghdad e Gaza per le genti “di colore”, o del tipo Chrysler e General Motors (30-40% di taglio dei salari) per i lavoratori dei paesi occidentali. Per la riuscita di una terapia d’urto del genere nulla è altrettanto utile quanto il ritorno in scena delle dottrine, degli stereotipi e delle prassi razziste già ampiamente sperimentate dal colonialismo storico, quanto la concorrenza scatenata e, più ancora, lo scontro aperto tra i lavoratori delle diverse “razze” e nazionalità.
Il sogno dei poteri costituiti euro-statunitensi non è quello di tornare indietro, supposto per assurdo che fosse possibile, a nazioni “etnicamente” omogenee con l’espulsione di massa delle genti immigrate. Per le imprese e gli stati occidentali tale prospettiva sarebbe un incubo, visto il crescente contributo delle immigrate e degli immigrati in quanto lavoratori alla produzione agricola e manifatturiera e ai servizi alle persone sostituitivi del welfare, e visto l’apporto che le genti immigrate danno alla crescita demografica delle nazioni occidentali in quanto riproduttrici della vita. Il sogno è quello di poter disporre in modo illimitato, mutevole al mutare delle congiunture, di una enorme massa di gastarbeiter, guest workers, lavoratori temporaneamente ospiti, una forza di lavoro just in time vincolata, senza nessuna libertà di circolazione, senza famiglia, senza nessun diritto permanente, senza sindacato. E di poter sospingere il più possibile anche gli immigrati di lungo corso in una simile condizione di mera, nuda forza-lavoro. Una incarnazione di quella “cineseria operaia” di cui parlò una volta Nietzsche senza, è probabile, avere in mente alcun elemento “etnico” preciso, bensì sospirando di una classe operaia finalmente educata, in quanto tale e indipendentemente dalla nazionalità dei suoi singoli membri, a “sentire” al modo dei soldati.
Anche gli architetti dell’attuale rilancio del razzismo istituzionale non sono degli esclusivisti. Se negli Stati Uniti picchiano di preferenza sui chicanos e sui latinos e in Europa sugli immigrati dai paesi arabi e islamici, i nuclei più numerosi e organizzati dell’immigrazione, attraverso l’inferiorizzazione e la demonizzazione delle nazionalità più indesiderate (il mezzo) ciò che essi hanno di mira è l’intero mondo dell’immigrazione, nazionalità “buone” incluse, anzi l’intero mondo del lavoro, la svalorizzazione di tutta la forza-lavoro senza badare alle differenze nazionali (il fine). E hanno di mira (un secondo fine) la criminalizzazione della povertà, la colpevolizzazione di quella parte del mondo del lavoro che non riesce e non riuscirà in futuro, a causa della crisi, a sfuggire alla povertà: un ruolo simbolico essenziale è assegnato, a questo riguardo, ai pauperizzati rom. Così la crisi del meccanismo dell’accumulazione viene scaricata sul lavoro o su chi, per ragioni storiche o contingenti, ne è rimasto privo: se le cose vanno male, la colpa è degli immigrati e degli emarginati, ed è con loro che bisogna prendersela.
Non si tratta, però, solo di questo. La prima, gravissima recessione di inizio secolo si intreccia, si sovrappone con la fine dell’ordine mondiale imperniato sul primato statunitense e, in senso lato, occidentale, messo in discussione ormai in ogni campo, dalla tecnologia alla moneta, dalla produzione culturale allo stesso ambito militare. La Cina, l’India, l’Oriente ascendono e, con essi, anche alcuni altri paesi del Sud del mondo. La lunga marcia dei popoli e dei lavoratori delle ex-colonie e – per altro verso – dei “rispettivi” capitalismi impaurisce (comprensibilmente) le élites occidentali e le spinge sempre più a considerare le genti immigrate negli Stati Uniti e in Europa occidentale come le quinte colonne di questa marcia, da tenere perciò sotto stretta osservazione e severo controllo. Un compito nel quale stati e governi stanno tentando di coinvolgere e mobilitare sempre più, oltre che gli apparati istituzionali, anche le rispettive società.
È proprio alla testa, al cuore e alla pancia delle popolazioni e dei lavoratori statunitensi ed europei d.o.c. che questo revival del razzismo di stato punta, agitando dinanzi ai loro occhi la presunta incompatibilità tra culture e civiltà diverse, la presunta tendenza naturale a delinquere degli immigrati e le bandiere stracciate, e però insidiose, della concorrenza sleale degli immigrati e della “preferenza nazionale” da ristabilire. Da svariati anni, ormai, questa diffusione istituzionale del razzismo a livello popolare non conosce soste, né limiti. E le conseguenze sono sempre più gravi. Prendiamo l’Italia, il paese che nei mesi scorsi ha sdoganato anche, “solo” a livello verbale, d’accordo, ma è da lì che si comincia, i rastrellamenti casa per casa degli immigrati. Una recentissima indagine sull’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati mostra che la metà di essi avverte un senso di ripulsa, più o meno ideologizzata, più o meno accentuata, verso le popolazioni immigrate, mentre solo un 10% di loro si dichiara serenamente “aperto” nei loro confronti. Risultati analoghi hanno dato analoghe rilevazioni in altri paesi europei, ad esempio in Spagna.
La tendenza di fondo di cui stiamo dicendo ha conosciuto un salto di qualità negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001, in Europa negli anni immediatamente successivi. Nella sua eclettica e ondivaga riflessione sulla violenza invisibile, Slavoj Zizek ha tuttavia centrato il punto quando ha affermato che in Europa
«il grande evento del 2006 è stata l’adozione generalizzata delle politiche contro l’immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell’estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito di un’orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: ‘È il nostro paese, o lo ami, o te ne vai’».
Più che di un salto di qualità compiuto in un singolo anno o momento, si è trattato, si tratta di un’escalation. Più che di politiche contro l’immigrazione, è preferibile parlare di politiche contro gli immigrati, poiché la loro finalità fondamentale non è mai il blocco dell’immigrazione, anche quando intimano ai malcapitati di tornarsene “a casa loro”. Ma senza dubbio il (provvisorio) punto di approdo di questo processo è il rilancio della retorica identitaria nazionalista, occidentalista, bianca, che pretende dagli immigrati, specie se extra-europei, qualcosa in più dell’integrazione o della stessa assimilazione: pretende il totale espianto dalle proprie “radici” nazionali e culturali, la totale rimozione dell’esperienza di discriminazione e di umiliazione vissuta nell’emigrazione, e la completa identificazione, la congiunzione amorosa, con il paese che ha avuto la magnanimità di accoglierli come ospiti e che, a date e rigorosissime condizioni, può addirittura ammetterli al supremo (e vuoto, Sayad insegna) onore della cittadinanza. Dunque, nonostante il fenomeno Obama, di cui parleremo, con i richiami istituzionali ai core values statunitensi, alla britishness, all’identité française, alle inflazionate “carte dei valori” italiana, svizzera, etc., e alle posticce “identità” territoriali locali, siamo ad un solo passo dal formale ripudio del tiepidissimo multiculturalismo fin qui esperito, sotto la pressione delle lotte dei coloured, al di là e al di qua dell’Atlantico. Ad un solo passo dall’accettazione della prospettiva dello “scontro di civiltà” come pensiero e prassi di stato dell’intero Occidente.
Le politiche migratorie repressive dell’ultimo decennio hanno prodotto anche un altro importante effetto: la messa in opera di un sistema di controlli militari, polizieschi, amministrativi, sociali che da un lato hanno adeguato la macchina repressiva a una sorta di emergenza permanente per difendersi dal rischio-invasione e piegato la produzione del diritto ai tempi frenetici dell’accumulazione a breve, e dall’altro hanno socializzato il potere di discriminare le genti immigrate ponendolo (anche) nelle mani di cittadini autoctoni comuni. Non ne sono stati colpiti solo gli immigrati o i più “pericolosi”, invisi o deboli tra essi, inghiottiti da nuove grandi fosse comuni nel Sahara, nel Mediterraneo, nelle aree desertiche al confine tra Messico e Stati Uniti. Per questa via sono stati introdotti nella vita civile in modo abituale mezzi e metodi militari che potranno essere usati domani, e già cominciano ad esserlo oggi, contro gli stessi autoctoni. Tanto per dirne una: con la diffusione su tutto il territorio europeo di campi destinati ai “clandestini” o ai richiedenti asilo sempre più spesso respinti ai margini della vita sociale, si realizza una banalizzazione della violenza istituzionale e privata, che oltre a legittimare forme di vero e proprio apartheid per gli immigrati, promuove e normalizza un “modello di società” in cui le misure penali speciali, i metodi polizieschi (anche brutali), la delazione verso i “sospetti”, la creazione di luoghi sottratti ad ogni forma di diritto, divengono accettabili e perfino indispensabili.
L’ascesa del razzismo istituzionale porta con sé, quindi, insieme a una nuova esasperazione dei nazionalismi sciovinisti, un’ulteriore stretta autoritaria dello stato sulla società. Svuotamento della democrazia? democrazia “delle radici, dei valori, dell’identità cristiana, occidentale, capitalistica”? post-democrazia? fascismo democratico? Più importante delle formule è, a mio avviso, afferrare la sostanza e la dinamica delle trasformazioni in atto, guardandosi bene dal ridurle a una meccanica ripetizione del passato. E comprendere che, da qualsiasi lato li si osservi, la guerra agli emigranti messicani, africani, arabo-islamici, il montare del razzismo di stato contro i lavoratori e le genti immigrate in Occidente sono parte di quella “guerra permanente contro i non possidenti e gli spossessati” (A. Traoré) che sta coinvolgendo aree sempre più ampie del lavoro manuale e intellettuale degli stessi paesi dominanti.
La prima ambizione del libro che avete davanti è quella di presentare una analisi e una documentazione la più ricca ed aggiornata possibile di questo processo, o intreccio di processi. Nessuno dei temi scottanti del momento viene eluso, ma ad alcuni di essi che sono al centro della propaganda e dell’azione degli stati specie in Europa e in Italia – l’islamofobia, le politiche contro gli immigrati “clandestini” e i richiedenti asilo, la rinnovata persecuzione contro i rom – è riservato uno spazio maggiore. Si tratta di motivi a prima vista particolari, circoscritti. E che invece, come dei bulldozer, aprono ogni giorno la strada ad un attacco generale contro tutte le popolazioni immigrate, raffigurate sempre più di frequente come il nemico interno, con l’esito di amareggiare e precarizzare radicalmente la loro esistenza, anche se e quando sono totalmente in regola con le norme di diritto speciale a loro riservate.
Nessuno dei temi scottanti del momento viene eluso… ma una questione di grande importanza non trova qui quella ampia e onnilaterale trattazione che meriterebbe: è la politica di stato su e verso le donne immigrate, quel peculiare mix di razzismo, sessismo e paternalismo, in cui si fondono e si confondono vecchi e nuovi stereotipi tutti inferiorizzanti le donne “di colore” (e attraverso esse, i loro popoli di origine). Ci occupiamo della tematica in relazione alle giovani donne immigrate quotidianamente oggetto di violenza sulle strade e all’ipocrita attenzione di stato verso le donne “islamiche”; aspetti non certo secondari e per contro assai poco dibattuti, ma avvertiamo comunque la limitatezza del nostro sguardo e vedremo di superarla alla prima occasione.
Questo libro si pone in linea di continuità con un precedente volume collettaneo che ho curato insieme a Fabio Perocco, Gli immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo, lotte, e al pari di quello presenta, come è scontato in un lavoro con molteplici contributi, importanti assonanze e importanti dissonanze. Delle prime ho riferito l’essenziale che non è da poco, dato il tema e dati i tempi. Le dissonanze riguardano soprattutto le prospettive della democrazia occidentale, la possibilità (o meno) di introdurvi una radicale riforma della cittadinanza che rispecchi le trasformazioni verificatesi nella composizione delle società occidentali: una cittadinanza basata sulla residenza, che vada oltre la singola nazionalità, plurale, attiva, partecipativa. Molti degli autori che scrivono in questo libro pensano che ciò sia per davvero possibile. Di loro condivido la determinazione nella difesa accanita dei diritti democratici acquisiti e la denuncia degli innumerevoli passi indietro che le democrazie stanno facendo in relazione agli immigrati per primo, ai lavoratori e ai cittadini autoctoni, in secondo; così come condivido in pieno l’impegno a delineare una nuova idea di cittadinanza svincolata dalla prigione del nazionalismo. Ma non posso condividerne la fiducia nella rigenerazione di una democrazia borghese dai tratti sempre più strutturalmente oligarchici, classisti e “razziali”, che non a caso conosce da decenni una riduzione della partecipazione politica degli stessi autoctoni anche ai suoi solenni riti elettorali. Il mio dissenso è ancor più profondo nei confronti di quei testi – penso, ad esempio, alle prese di posizione della Coordination française pour le droit d’asile – che, in qualche modo, si appellano proprio agli attuali governi, alle attuali autorità ed istituzioni europee e internazionali perché invertano la loro rotta di marcia, che a me appare invece determinata e fissata dagli interessi che esse sono chiamate a presidiare, e che intendono ad ogni costo presidiare.
Tutto già scritto, allora? Sì, se ci riferiamo alla superclass euro-statunitense e alle sue istituzioni. Al tempo stesso, nulla è già deciso. L’ascesa del razzismo non è irresistibile. Il numero, il radicamento, la centralità degli immigrati nella produzione di beni e di servizi sono crescenti, e crescente è la loro forza oggettiva, un ostacolo non facile da spianare per le politiche razziste. È in atto una trasformazione epocale delle società occidentali in senso multirazziale, multinazionale, multiculturale, che si intreccia con un inaudito processo di polarizzazione sociale tra capitale e lavoro; questo, a sua volta, si interseca con la crisi dell’ordine mondiale a guida statunitense.
La storia, la storia dei grandi conflitti sociali, delle grandi alternative sociali e politiche che hanno segnato il ventesimo secolo, più che esser finita, sembra sul punto di ricominciare su nuove basi e da nuovi “luoghi”. Specie perché, a differenza di ieri (penso ora all’Europa), vivendo fianco a fianco, le genti di diversa nazionalità che si guadagnano la vita con il sudore della fronte e l’esaurimento dei propri nervi stanno apprendendo, tra mille traversie, anche ciò che le avvicina e le accomuna, stanno sperimentando, in mezzo a molteplici incomprensioni, pregiudizi, attriti, conflitti, odii, anche il valore ideale e materiale della solidarietà tra lavoratori: al di là dei diversi colori della pelle, delle diverse culture, delle religioni o non religioni, delle differenze vere o presunte tra le civiltà. Ed è proprio questo lungo, faticoso apprendistato fatto in comune da autoctoni e da immigrati che rende inquieti i sonni dei potenti d’Europa e d’America.
La Nuit juste avant les forêts